Il siciliano: un linguaggio che racconta mille popoli

Il siciliano è considerato da alcuni come un dialetto, ma il termine corretto dovrebbe essere “lingua”. Sì, perché a differenza di molte altre espressioni dialettali d’uso nel nostro Paese, in Sicilia si parla un linguaggio antico, che ha vissuto numerose trasformazioni ma che è stato allo stesso tempo la culla della letteratura e della poetica italiana. La sua stessa origine è ancora oggi materia di studio e discussione.

Il siciliano, una lingua dalla lunga storia:

 

Il siciliano: un idioma dall’origine complicata

Per comprendere il dubbio dei linguisti sulle radici del siciliano bisogna saltare fra secoli di storia. La Sicilia ha vissuto sotto moltissime dominazioni straniere, attraverso incontri e scontri fra culture diverse, che nel territorio hanno operato profondi cambiamenti. Si annoverano ad esempio le conquiste arabe che, dall’827 al 902, stravolsero non solo l’organizzazione sociale e l’economia allora sotto il dominio dei bizantini, ma anche il parlato. E così, parole siciliane come tabbutu (bara) o favara (sorgente) conservano assonanze con le parole arabe tābūt e fawwara, e così avviene in oltre 300 espressioni.

Nel 1061 i Normanni strapparono la Sicilia ai governi musulmani, e da lì iniziarono le prime influenze francesi nell’idioma parlato. Un italo-gallico che sopravvive ancora oggi in parole come giugnettu, (luglio), in francese juignet, o in largasìa, generosità, dal francese largesse.

Con l’ascesa al trono di Spagna Carlo V, nel 1516, il siciliano si arricchì di derivazioni catalane e castigliane. Ad oggi parole come làstima (uguale sia in spagnolo sia in siciliano) che significa pena, o arriminare, (mescolare) dallo spagnolo remenar, sono sopravvissute a memoria di quelle trasformazioni.

Molti teorici sottolineano origini ancor precedenti da attribuirsi al ceppo indoario degli idiomi protoindoeuropei. Quando i Siculi, guidati da re Siculo, dall’India giunsero in Sicilia: assieme agli Elimi e i Sicani rappresentarono la terza cultura dominante prima delle colonizzazioni elleniche. Si è ipotizzato quindi che condividessero stesso ceppo linguistico da cui è stato possibile codificare la lingua sanscrita. Molti studiosi infatti hanno individuato alcune assonanze con questa lingua. Pùtra, il puledro in Sicilia, in lingua sanscrita è “figlio”; bhâryâ (moglie in sanscrito) in siciliano è bària (balia).

 

Dialetto o lingua: il siciliano come espressione autoctona

A questo punto, il dubbio se il siciliano sia un semplice dialetto o una lingua vera e propria è ancora vivo, visti i suoi natali antichi e i numerosi cambiamenti vissuti. Tanto da rendere la sua evoluzione lontana rispetto alla rotta intrapresa dall’italiano.
L’UNESCO, in questo, si è già pronunciata: il siciliano viene considerato una lingua a sé stante. Nello specifico, una lingua regionale d’Italia ma non di derivazione italiana. E per di più, è vulnerabile al rischio di disperdersi: insomma, un patrimonio culturale da preservare dall’estinzione.

D’altronde, il volgare siciliano era considerato una delle prime lingue letterarie italiane già dal XII secolo. Dante Alighieri, nel suo De vulgaris eloquentia, considerò la poetica siciliana pioniera nella produzione letteraria in lingua volgare, di cui Palermo era baluardo.

Ma c’è di più: l’idioma siciliano ha generato esso stesso dei dialetti regionali. È il caso del dialetto reggino, parlato nella parte meridionale della Calabria, che deriva proprio dalle influenze della lingua siciliana parlata nel versante orientale dell’isola. Questo rapporto di vicinanza ha fatto sì che il popolo siculo approdasse anche oltre quello che oggi è lo stretto di Messina, creando commistioni di cultura e linguaggio sin dal periodo ellenico.

Se avete prenotato un traghetto per la Sicilia, non perdete l’opportunità di imparare a parlare un po’ di siciliano e scoprire questa splendida lingua.

 

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Foto di Erik Karits da Unsplash

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